
“Napoli sottocoppa”: Quando Nerone a Napoli volle fare «Lily Cangy»
Quando Nerone se “ribbuttaie” (debuttò) a Napoli, se ne cadette ‘o triato. E non certamente per gli applausi. Perché quello, l’imperatore, Nerone, l’uomo che aveva potere di vita e di morte su quasi tutta l’umanità del mondo conosciuto al 62 dopo Cristo, teneva infatti na voce che faceva venire i brividi a chi la sentiva. Il teatro, almeno una certa parte di esso, se ne venne giù perché il Vesuvio dopo quasi mille anni di silenzio diede segni di vita e si fece sentire con la prima di quelle tante altre botte che poi portarono alla tragedia di diciassette anni dopo: l’eruzione che seppellì sotto cenere e lapilli tutta la piana vesuviana con Pompei, Ecolano, Stabiae, Oplontis nel 79 dopo Cristo.
Le malelingue, invidiose e acide, subito ci si azzupparono la fresella e misero in mezzo che il terremoto era stato la reazione degli dei alla schifezza di voce e all’altrettanta fetenzia del brano che l’imperatore aveva scelto per quella prima “mondiale” come cantante. Un debutto per il quale l’uomo si stava preparando da mesi e che aveva deciso di fare a Napoli, la città che lui più amava dopo Roma. E qua viene subito da pensare: vuoi vedere che, allora come oggi, Napoli era la “capitale della canzone”, bella o brutta che fosse?
Comunque, andiamo per ordine. Il teatro romano dell’epoca si trovava nel cuore della Neapolis. Ovvero in quello che ancora oggi si può considerare il vero centro della citta: quel dedalo di vicoli e vicarielli tra i quali ci sta pure via dell’Anticaglia. E la, attraverso una porticina di ferro, quasi sempre chiusa, si accede alle gradinate del monumento che, col tempo, è stato inglobato tra palazzi e case che si sono “rosicati” la storia, a poco a poco. La, su quella scena, l’imperatore prese la cetra in mano e cominciò a esibirsi. Non era arrivato nemmeno a metà della performance che il teatro cominciò a tremare. Ma lui, non se ne diede per inteso e continuò a cantare mentre gli spettatori se la squagliavano, temendo per la propria incolumità. I primi a mettere le gambe in movimento verso le uscite furono i giovanotti della claque che lo seguiva, ben pagata, dappertutto per applaudire e non lasciare che l’esibizione, vista, la pochezza del cantante, non facesse fetecchia. Cinquemila giovanotti, plebei, scelti tra i più prestanti, ai quali furono insegnati, dopo essere stati divisi in gruppi, i vari tipi di applauso che dovevano fare. Ben vestiti, capelli lunghi e ottimamente pettinati, senza anelli alla mano sinistra quale segno distintivo, prendevano paghe da sogno solo per scoppare le mani. I loro coordinatori, i capi applauditori, riuscivano a guadagnare sino a quattrocentomila sesterzi al mese. Per capire quanto tenesse alle sue performance canore basta solo pensare che nessuno poteva abbandonare il teatro quando si esibiva e che gli ingressi venivano letteralmente sbarrati. Qualcuno per scampare alla sua voce si dice che si fosse finto morto per farsi portare fuori senza problemi. Non appena era diventato imperatore aveva chiamato a corte il citaredo Terpno, una sorta di “the voice” dell’epoca perché gli insegnasse trucchi e segreti del bel canto. Per fare fiato arrivò, come narrano le cronache del tempo, a mettersi lastre di piombo sul petto per esercitare il diaframma.
Sul motivo e sul brano che Nerone cantò a Napoli, tuttavia, le cronache dicono meno di niente. Non si sa. Mentre a Roma, una delle tappe che seguirono al debutto napoletano si seppe che interpretò una “Niobe”, scena drammatica con elementi musical canori. E cantò, di disse, pure quando Roma prese fuoco e si consumò per più giorni. Quando la città si sentì troppo intofata dalle nefandezze compiute e non volle più sopportare, la congiura prese piede e venne braccato. Intercettato, solo e abbandonato pure dai suoi pretoriani, si fece trapassare dalla corta spada di uno schiavo. Mentre esalava l’ultimo respiro ebbe ancora il tempo di esclamare «quale artista muore con me!». Nerone.
Carlo Avvisati
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