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“Napoli Sottencoppa”: Totò e il pazzariello tornano ncopp’è quartieri

Napoli Sottencoppa

«Attenzione… battaglione… siamo arrivati dal padrone… è una brava perzona… o patrone tene a pasta ‘e sustanza quando l’avita mangiata vi riempisce gli intestini e pure la panza… attenzione battaglione mo facimmo sentì na bella cazone ô patone…» e parte la canzone di Cicerenella in l’Oro di Napoli, uno dei film più belli di Totò.

Immenso e unico principe De Curtis. Grande, nella sua nobiltà, innanzitutto di napoletano, che per non fare imbrogliare e confondere le chiocche dei suoi concittadini con tutti i nomi che teneva: Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio si volle chiamare semplicemente Totò. Per gli altri, per quelli ricchi, i signori che tenevano la puzza sotto al naso, no. Per loro, lui era, e pretendeva che così lo chiamassero, “il Principe”, con tutti i nomi e titoli che gli venivano dietro. Per decenni, Totò, la sua maschera, un concentrato di umanità e di tristezza, oltre che di arte finissima, ha fatto ridere e sorridere intere generazioni di italiani, che magari non ne capivano la parlata, la lingua, il dialetto, ma pure riuscivano a comprenderne la grandezza e la potenza recitativa. I critici, invece, no. Quelli che mangiavano pane e teatro e masticavano celluloide non lo avevano capito. O forse, quasi certamente, non avevano voluto capirlo. Anzi. Lo consideravano una sorta di guitto. E invece lui era immenso. Più grande dell’osannato Charlot; immenso quanto Buster Keaton e il duo di Stan Laurel e Oliver Hardy, ovvero Stanlio e Ollio, messi assieme, più unico di Jaque Tati o Fabrizi, o Sordi, o Petrolini.

Totò, nelle sue performance cinematografiche e teatrali era capace di anticipare i tempi e di “prevedere” venti, trenta anni prima, quanto sarebbe accaduto poi. Nato alla Sanità nel febbraio del 1898, al terzo piano di un palazzone di via Santa Maria Antesecula dalla relazione tra Anna Clemente e Giuseppe De Curtis, non venne riconosciuto che anni dopo da costui. E quel titolo di “nobile” al quale lui teneva fu un regalo che gli venne dall’essere stato adottato, nel 1933, dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, dal quale ereditò pure quell’altra copiosa quantità di onorificenze titolate che stavano appresso. Ora pare che Totò, uno dei suoi personaggi che più ha caratterizzato, ‘o Pazzariello, tornerà in vita per fare pubblicità ai locali che stanno sopra ai vicoli di via Toledo, i Quartieri, che come tutti e forse più, hanno sofferto stu fetentone di virus che ci ucciso la salute, pure, da quattro mesi a questa parte. Bene. anzi, Benissimo. Onore giusto e dovuto a un uomo che, in vita, non ha mai fatto mancare il sostegno morale e, principalmente materiale a chi nella sua Napoli era derelitto e bisognoso di un sostentamento.

Lui, non faceva la carità. Lui sparteva chi chi nun ‘o tteneva.

E pensare che la madre, Anna Clemente, avrebbe volito che il figlio si chiudesse in collegio e si facesse prete: “meglio nu figlio prevete che artista”, diceva. Per fortuna, in questo caso, come spesso succede, ‘o riàvulo, chi sape chi tra di loro, che spesso nce mette ’a coda e fa le pentole ma non i cupierchi, si mise di buzzo buono e gli fece scegliere la strada dell’arte e dello sberleffo verso i potenti e i “caporali” che affliggono il mondo con soprusi e nefandezze. Quegli stessi che un napoletanissimo pernacchio è capace di seppellire sotto metri e metri di terreno perché, come enunciò di don Ersilio – Eduardo De Filippo in “L’oro di Napoli”, mentre si stava facendo la capa col pettine nnanze ô specchitiello, essi sono “ ‘a chifezza d’’a schifezza d’’a schifezza d’’a schfezza ‘e ll’uommene.

E questa gente qua, noi napoletani, come don Ersilio, li schi..viamo e li teniamo lontani. Sciù!

Carlo Avvisati

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